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Alessandro Peroni
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Pietro Metastasio
Aristotele e il "dramma per musica".
Riletture della Poetica
nei secoli d'oro del melodramma


Saggio pubblicato in "La Fortezza",
XIII, nn. 1-2/2002 - XIV, nn. 1-2/2003, pp. 17-55
(uscito nel 2004)


In questo studio si ripercorre la storia del melodramma italiano attraverso gli scritti dei suoi principali teorici a partire dal suo straordinario esordio fiorentino a cavallo dei secoli XVI e XVII fino alla decadenza del tardo XVIII.
In particolare, si evidenzia, come motivo comune, il continuo ricorso alla Poetica di Aristotele come testo di riferimento per fornire una giustificazione teorica di questa forma di teatro, in particolare a scopo apologetico di fronte alle accuse di superficialità e incongruenza che le venivano rivolte da molti critici, fra i quali spicca per acutezza argomentativa Ludovico Antonio Muratori.
Dal commentatore cinquecentesco Bernardo Segni all'epigonale Estratto del Metastasio, passando per le opere dei letterati settecenteschi Gianvincenzo Gravina e Jacopo Martello, Aristotele viene costantemente indicato come l'autentico teorizzatore del melodramma, mentre l'opera italiana, nella quale ogni sillaba di testo viene cantata, rappresenta l'autentica realizzazione dell'antica tragedia, così com'era descritta nella Poetica.


"Per Musica intendo non solamente quella, che si canta dal Choro tutto insieme, quanto tutto quel modo, che fuor' del parlare ordinario è usato dagli Istrioni nel recitarsi le Favole. Perché io giudico per questo luogo, che l'oppinion' d'Aristotile sia, che tutta la Tragedia si cantasse. Et qui mi sovviene quando tre anni fa alcuni giovani nobili di questa Città volson' far recitar' una Tragedia, che Giovanbattista Strozzi amico mio singularissimo, et di quel buon ingegno, et giuditio, che sa ogn'huomo, era in simil'oppinione, anchor' che io allhora da lui differissi; et infra molte ragioni da lui ingegnosamente allegate, n'allegava una, che in tal' modo, cioè, la Tragedia verrebbe à muover' più gli animi, et maggiormente ad esser'intesa da gran moltitudine" (Rettorica e Poetica d'Aristotile tradotte di Greco in Lingua Vulgare Fiorentina da Bernardo Segni Gentil'huomo, e Accademico Fiorentino, Firenze, Torrentino, 1549, pp. 294-95).

"Ognuno sa e sente, che movimenti si cagionino dentro di lui in udire valenti Musici nel Teatro. Il Canto loro sempre inspira una certa mollezza, e dolcezza, che segretamente serve a sempre più far vile, e dedito a' bassi amori il popolo, bevendo esso la languidezza affettata delle voci, e gustando gli affetti più vili, conditi dalla Melodia non sana. Che direbbe mai il divino Platone, se oggidì potesse udire la Musica de' nostri Teatri; egli, che ne' Libri della Repubblica tanto biasimò quella, che a' suoi tempi spirava alquanto di mollezza, considerandola come infinitamente perniziosa a i buoni costumi de' Cittadini? E pure tutta la Musica de gli antichi, benché molle, non poteva mai paragonarsi a quella de' moderni, la quale [...] da ogni lato spira effemminatezza, ed infetta i Teatri. Da questi non si partono giammai gli Spettatori pieni di gravità, o di nobili affetti, ma solamente di una femminil tenerezza, indegna de gli animi virili delle savie, e valorose persone" (L.A. MURATORI, Della perfetta poesia italiana (1706), a cura di A. Ruschioni, 2 voll. con numerazione di pagine continua, Milano, Marzorati, 1971-1972, pp. 573-74).

"Oltre il verso, il quale è manifesto indicio del canto che tutti i versi accompagnava, la medesima divisione d'Aristotele, il quale costituisce la melodia parte di qualità della tragedia, comprova che interamente si cantasse. Perché egli per parte di qualità significa spezie in cui la tragedia si diffonda tutta, non membro in cui parte di quella si contenga. Onde siccome il colore occupa tutto il corpo di cui è qualità, così la musica, qualità della tragedia, la dee interamente occupare" (G.V. GRAVINA, Della tragedia (1715), in ID., Scritti critici e teorici, cit., pp. 503-89, citazione alle pp. 511-12).

"Quest'arte, dunque, ridotta ad una perfezione così esquisita in Italia, merita, che l'Italia ne faccia il suo più caro e pomposo spettacolo, a cui si affidano anche i sovracigli più austeri con lodevole giovialità, e merita altresì che le forestiere nazioni consentano al dilettarsi di ciò che diletta sì giustamente l'Italia; merita che le voci, gli strumenti, la poesia, la pittura, l'architettura, la meccanica, la mimica, e qualunque altr'arte la corteggino e la ubbidiscano" (P.J. MARTELLO, Della tragedia antica e moderna (1715), in ID., Scritti critici e satirici, a cura di H.S. Noce, Bari, Laterza, 1963, pp. 187-316, citazione a p. 294).

"Non è riuscito finora ad alcuno di scrivere i tempi ed i suoni del parlar naturale; [...] una voce che, per essere udita da un popolo a cui si parli, dee essere così eccessivamente dal suo natural sistema alterata, ha bisogno d'esser regolata diversamente nel diverso ordine delle nuove sue proporzioni; altrimenti formerebbe grida sconce, dissonanti e ridicole. Questo nuovo regolamento è la musica: e questa musica è così necessaria a chi parla ad un pubblico, che, se l'arte non la somministra, la suggerisce la natura. Non v'è oratore che non canti; non banditore alcuno, non alcun pubblico venditore di qualunque merce, che non sia costretto, per farsi intendere, o di adottare o di formarsi a capriccio qualche sua cantilena: e quegli attori medesimi che professano di recitar versi senza musica, si trovano obbligati ad impiegarne una che chiamano declamazione: musica assai mal sicura, perché non ha altra guida che l'incerto giudizio dell'orecchio d'un recitante. Questa fisica e tanto vera quanto lucida prova aggiunta alle infinite altre che la confermano, rende visibile l'errore di quei critici che hanno francamente deciso che degli antichi drammi non si cantavano se non se i cori" (P. METASTASIO, Estratto dell'Arte Poetica d'Aristotile e considerazioni su la medesima, in ID., Tutte le opere, , a cura di B. Brunelli, 5 voll., Milano-Verona, Mondadori, 1943-1954, vol. II, pp. 957-1117, citazione alle pp. 977-78).




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